Le sorelle Porro, Luisa, Stefania, Vincenza e Carolina, ricche proprietarie terriere, vengono ricordate come donne di Chiesa e preghiera. A loro si devono numerose elargizioni in beneficenza. Esse furono artefici, fra l'altro, di una donazione di oltre 500.000 lire ai Salesiani nel 1945 per l'acquisto e costruzione dell'Oratorio Don Bosco, ancora oggi presente al centro di Andria e frequentato dai giovani andriesi. Nubili, venivano anche chiamate le «Signorine Porro». Durante i processi giudiziari che seguirono l'eccidio, le due sorelle sopravvissute, Stefania e Vincenza, si pronunciarono davanti al giudice con queste parole: "Noi non riconosciamo nessuno di questi di imputati. Noi abbiamo perdonato". Patrocinatore nel processo, nonché di loro cugino, fu l'On. Avv. Onofrio Jannuzzi, Senatore della Repubblica e Sindaco di Andria.
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«Nel marzo del 1946 una folla inferocita e incontrollabile massacrò le sorelle Porro, ad Andria. Un eccidio in piena regola, con corpi vituperati e trascinati per le strade ormai senza vita, quasi a monito. Colpevoli di avere alle spalle una storia secolare di ricchezza, costruita sulle proprietà agrarie. Comincia così Una famiglia borghese meridionale. I Porro di Andria, il corposo volume di Riccardo Riccardi edito da Rubbettino: analisi storica dell'evoluzione del Sud attraverso il punto privilegiato di un nucleo familiare considerato nobile, di quella nobiltà di estrazione rurale che era riuscita a sfruttare il primo progresso tecnologico che aveva reso l'agricoltura "commercializzata". Per Riccardi un nuovo tassello nello studio della storia economica e sociale del Mezzogiorno e dei suoi gruppi dirigenti» (Anna Puricella, in la Repubblica, Ed. Bari, 19.06.2013, p. 17.
«Se molto si è parlato e discusso dell’efferato eccidio delle sorelle Porro, compiuto in quel fatidico marzo del 1946 ad Andria – popolosa città contadina della Puglia latifondista – per mano di una folla straziata dalla fame, ma anche da indirizzi politici rivoluzionari in voga nel secondo dopoguerra, al contrario ancor poco si è indagato sulla formazione sociale ed economica della borghesia agraria pugliese e dell’intero Mezzogiorno. [...] una spettacolare vicenda di mobilità della ricchezza. La storia dei Porro evidenzia come un innato dinamismo e un grande fiuto per gli affari siano stati la forza necessaria ad abbattere le vecchie eredità feudali e cetuali settecentesche, per affrontare i temi della trasformazione del mercato fondiario e dell’agricoltura "commercializzata", della mobilità sociale, della modernizzazione degli apparati statali ottocenteschi. [...] - R. Riccardi, Una famiglia borghese meridionale. I Porro di Andria, 2013 (dalla quarta di copertina).
PIAZZA CAROLINA E LUISA PORRO, martiri andriesi del 1946
(Piazza in Andria, dedicata alle Sorelle Porro, sita tra via Machiavelli, via Reggio Calabria e via Guicciardini) |
Il palazzo fu costruito da Giovanni Porro, fratello del Vescovo Monsignor Stefano Porro entrambi figli di Riccardo Porro e Teresa Jannuzzi-Ceci. Alla sua morte avvenuta prematuramente nel 1904, il figlio Vincenzo fece ricostruire ed ampliare il palazzo commissionando una ricca facciata in stile liberty-floreale al noto architetto Beniamino Margiotta Gramsci. Con Vincenzo, che prese le redini delle aziende agricole e dei possedimenti paterni, vissero anche le di lui sorelle: Luisa, Carolina, Stefania e Vincenza.
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L'ECCIDIO DELLE SORELLE PORRO: UN MASSACRO CHE FA ANCORA DISCUTERE
di Riccardo Riccardi, 7 Marzo 2012
«Il 7 marzo ricorre l’anniversario del famigerato eccidio delle sorelle Porro. Sono passati sessantasei anni da quel triste e violento scempio che ancor oggi inquieta le coscienze. La storia è nota e, quando accadde, in un secondo dopoguerra lacerato da devastanti sconfitte politiche ed economiche, provocò dolorosi rimorsi in tutti gli ambienti della società civile del tempo. La stampa, che provava a muovere i primi passi in una società più libera e non soffocata dalla repressione fascista, dette all’episodio una risonanza nazionale che varcò il confine del nostro Paese. Molto si parlò – e per lungo tempo – delle gravi condizioni economiche in cui versavano i braccianti andriesi e, pur mettendo a fuoco una realtà inconfutabile che nessuno potrà mai mettere in discussione, dove la miseria da una parte e le rivendicazioni politiche dall’altra le facevano da padrone, molto poco, invece, si sono analizzate le personalità delle sventurate quattro sorelle Porro, e, di tutte quelle anime che, in quella giornata, ma anche nei giorni precedenti, senza preclusione di sesso e di appartenenza sociale, hanno per un tragico disegno del destino subito lo straziante schiaffo della violenza.
Le biografie dei deceduti, sempre così superficiali e scarne, in un momento in cui il nostro Paese viveva una situazione di esasperazione a causa di una classe dirigente per metà legata al passato fascista e per l’altra metà disposta a sperimentare i principi della democrazia – tra di loro c’erano servitori dello Stato come poliziotti, carabinieri ma anche cittadini provenienti dal ceto contadino e dalla società civile –, non interessavano a nessuno. Molto si è parlato della fame e di quella consequenziale violenza che ne scaturì da parte di alcuni braccianti che, accecati dall’odio di classe, usarono le armi e cercarono la “morte” per appropriarsi di diritti sacrosanti di dignità umana ma, poco si è parlato delle individualità delle sorelle Porro che ebbero il solo peccato di far parte di un ceto sociale di privilegio. A nessuno è mai importato nulla della loro reale vita e in quale ambiente familiare fossero vissute. Una vita che pur trascorsa nell’opulenza della borghesia terriera, era fatta, più che altro, di ripetitive preghiere, di grevi silenzi, di pochi sfarzi e di sogni repressi e mai realizzati.
Fu un destino ingiusto il loro, come lo fu per migliaia e migliaia di donne del nostro Paese. Delle quattro sorelle, solo Stefania, quasi quarantenne, lasciò il nubilato, mentre Luisa, Vincenzina e Carolina, non ebbero modo di maritarsi e, pertanto, non realizzarono quel sogno che ogni donna, in special modo in quel periodo storico, voleva sperimentare. Si impegnarono nei lavori domestici, nell’ago e nel cucito e, più che altro nella preghiera. Le loro uscite quotidiane prevedevano soltanto le visite al cimitero o alla vicina San Francesco che da più generazioni era la chiesa dei loro antenati. Devote e pie, fu per loro naturale appoggiare gli ideali della Chiesa che, dopo il crollo del Regno d’Italia, divennero un punto di riferimento per molti giovani e per molte donne, più che altro, tanto che si iscrissero alle associazioni come l’Azione Cattolica e le ACLI per solidarizzare con la nascente Democrazia Cristiana. Bisognava, a tutti i costi, rimettere in moto questo Paese.
Andria, per di più in quegli anni, ebbe la presenza della nobile figura di monsignor Giuseppe Di Donna che, sempre in prima linea per aiutare i più indifesi, istituì nel 1943 “l’Opera dei Ritiri di Perseveranza”, in cui si tenevano incontri mensili affidati alle prediche dei Padri Gesuiti; omelie molto seguite dai giovani e dalle donne andriesi. Ma dal giugno del 1945 si registrarono una recrudescenza di scontri a fuoco che aggravarono i rapporti tra la classe dei braccianti – la maggior parte iscritta alla lega o al partito comunista – e le istituzioni pubbliche e religiose e i proprietari terrieri. Nonostante i buoni propositi delle associazioni religiose, Andria divenne la roccaforte rossa d’Italia. Nel 1946, proprio nelle prime giornate di marzo, quando gli scontri divennero sempre più accesi, le tre sorelle, ormai anziane e fiduciose della loro preghiera, rifiutarono di lasciare la loro dimora in piazza Municipio e seguire i loro parenti in luoghi più sicuri. Si sentivano, nonostante tutto, tranquille in quanto non solo avevano elargito la somma di cinquecento mila lire ai Salesiani per acquistare un terreno e costruire un oratorio, ancor oggi in vita, chiamato “Don Bosco” che, con la sua costruzione avrebbero trovato lavoro tanti disoccupati andriesi ma, più che altro erano certe che a donne vecchie e sole come loro nessuno avrebbe mai potuto far del male.
Ma il destino era segnato. Già dal 6 marzo alcuni individui si presentarono al loro palazzo in piazza Municipio per rovistare i loro appartamenti e quello del loro inquilino Francesco Ciriello, direttore della Banca d’Andria, in cerca di armi e persone. Era il segnale che qualcuno aveva sparso dicerie nei loro riguardi. Il pomeriggio, del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, invece, si venne a sapere che l’onorevole Giuseppe Di Vittorio, segretario della confederazione generale del lavoro, doveva tenere un comizio proprio nei pressi della loro abitazione per invitare i contadini andriesi a tenere la calma.
Luisa, Stefania, Carolina e Vincenzina pur intimorite per l’ennesimo comizio che, visto l’evolversi della situazione incandescente di una buona parte dei braccianti andriesi e, più che altro, per l’oscura e misteriosa visita dei cinquanta contestatori del pomeriggio precedente che cercavano armi che mai loro avrebbero potuto possedere, presero le due valigie che avevano preparato con i loro beni più cari e scesero al piano terra per dedicarsi, con i Ciriello, i portinai e la domestica, nella guardiola del loro palazzo, alla recita di un rosaio.
Erano passate da qualche minuto le ore 20 quando, ad un tratto, un colpo d’arma da fuoco tuonò nelle tempie della scioccata folla e della compagnia che pregava in portineria. Da quel momento al grido “hanno sparato dal palazzo delle sorelle Porro”, iniziò il macabro eccidio. Francesco Ciriello, Stefania e Vincenzina Porro, nonostante le violenze scamparono la morte, invece, per Luisa e Carolina non ci fu nulla da fare. Furono afferrate in via San Mauro e spinte attraverso l’androne del loro palazzo prima in piazza Municipio e poi trascinate per i capelli in via Bovio: “ammazzatele, ammazzatele che hanno le bombe nel petto” gridavano i rivoltosi con veemenza. Uno di loro con una gruccia le colpiva senza ritegno e pietà. Carolina fu uccisa da un esagitato con un colpo di baionetta allo stomaco e pestata a sangue ripetutamente sul viso dai tacchi delle scarpe di una donna e Luisa, invece, dopo aver “benedetto” il suo carnefice mentre con la sua mano esile si liberava gli occhi dai capelli imbrattati di sangue, fu mandata a sbattere, con un violento spintone, tra ingiurie indicibili, contro lo spigolo della porta attigua all’armeria Giannotti.
I corpi delle due sorelle Porro giacquero nel fango per tutta la notte, osservati a vista dai cinici agitatori, impedendo qualsiasi soccorso. Al mattino dell’8 marzo – giornata che oggi è dedicata alla festa delle donne – girava voce che i due dilaniati cadaveri sarebbero stati trascinati per le vie della città. Intervenne, finalmente, la forza pubblica su sollecitazione del vescovo Di Donna e i cadaveri, finalmente, vennero prelevati e trasportati al cimitero, tra un fragoroso e inaspettato applauso liberatorio.
Alle ore 11, una piazza Municipio gremita da uomini e donne di tutte le età, ascoltava il provato onorevole Giuseppe Di Vittorio il quale con toni fermi e chiari prometteva che il lavoro molto presto sarebbe arrivato e che, in ogni caso, l’ordine pubblico doveva assolutamente ritornare sovrano.
La scrittrice Ada Negretti – una donna che ben conosceva i tormenti dell’animo delle donne del Sud –, nel 1948, durante le fasi più tumultuose del processo, così ricordava le due sorelle Porro:«in chiesa venivano additate con reverenza e rispetto quando snocciolavano compostamente i rosari sul nero dei loro vestiti. È tutto lindo e accurato in queste donne. La rigida educazione ricevuta da genitori esemplari ha messo nelle figlie il senso preciso della signorilità senza, ostentazioni, della grazia senza chiasso, del contegno misurato ma senza rigidezza: mai un eccesso. E tanto rispetto dei simili, tanta comprensione per le loro pene, pei dolori, per le miserie, per gli affamati, pei derelitti»
di Riccardo Riccardi, 7 Marzo 2012
«Il 7 marzo ricorre l’anniversario del famigerato eccidio delle sorelle Porro. Sono passati sessantasei anni da quel triste e violento scempio che ancor oggi inquieta le coscienze. La storia è nota e, quando accadde, in un secondo dopoguerra lacerato da devastanti sconfitte politiche ed economiche, provocò dolorosi rimorsi in tutti gli ambienti della società civile del tempo. La stampa, che provava a muovere i primi passi in una società più libera e non soffocata dalla repressione fascista, dette all’episodio una risonanza nazionale che varcò il confine del nostro Paese. Molto si parlò – e per lungo tempo – delle gravi condizioni economiche in cui versavano i braccianti andriesi e, pur mettendo a fuoco una realtà inconfutabile che nessuno potrà mai mettere in discussione, dove la miseria da una parte e le rivendicazioni politiche dall’altra le facevano da padrone, molto poco, invece, si sono analizzate le personalità delle sventurate quattro sorelle Porro, e, di tutte quelle anime che, in quella giornata, ma anche nei giorni precedenti, senza preclusione di sesso e di appartenenza sociale, hanno per un tragico disegno del destino subito lo straziante schiaffo della violenza.
Le biografie dei deceduti, sempre così superficiali e scarne, in un momento in cui il nostro Paese viveva una situazione di esasperazione a causa di una classe dirigente per metà legata al passato fascista e per l’altra metà disposta a sperimentare i principi della democrazia – tra di loro c’erano servitori dello Stato come poliziotti, carabinieri ma anche cittadini provenienti dal ceto contadino e dalla società civile –, non interessavano a nessuno. Molto si è parlato della fame e di quella consequenziale violenza che ne scaturì da parte di alcuni braccianti che, accecati dall’odio di classe, usarono le armi e cercarono la “morte” per appropriarsi di diritti sacrosanti di dignità umana ma, poco si è parlato delle individualità delle sorelle Porro che ebbero il solo peccato di far parte di un ceto sociale di privilegio. A nessuno è mai importato nulla della loro reale vita e in quale ambiente familiare fossero vissute. Una vita che pur trascorsa nell’opulenza della borghesia terriera, era fatta, più che altro, di ripetitive preghiere, di grevi silenzi, di pochi sfarzi e di sogni repressi e mai realizzati.
Fu un destino ingiusto il loro, come lo fu per migliaia e migliaia di donne del nostro Paese. Delle quattro sorelle, solo Stefania, quasi quarantenne, lasciò il nubilato, mentre Luisa, Vincenzina e Carolina, non ebbero modo di maritarsi e, pertanto, non realizzarono quel sogno che ogni donna, in special modo in quel periodo storico, voleva sperimentare. Si impegnarono nei lavori domestici, nell’ago e nel cucito e, più che altro nella preghiera. Le loro uscite quotidiane prevedevano soltanto le visite al cimitero o alla vicina San Francesco che da più generazioni era la chiesa dei loro antenati. Devote e pie, fu per loro naturale appoggiare gli ideali della Chiesa che, dopo il crollo del Regno d’Italia, divennero un punto di riferimento per molti giovani e per molte donne, più che altro, tanto che si iscrissero alle associazioni come l’Azione Cattolica e le ACLI per solidarizzare con la nascente Democrazia Cristiana. Bisognava, a tutti i costi, rimettere in moto questo Paese.
Andria, per di più in quegli anni, ebbe la presenza della nobile figura di monsignor Giuseppe Di Donna che, sempre in prima linea per aiutare i più indifesi, istituì nel 1943 “l’Opera dei Ritiri di Perseveranza”, in cui si tenevano incontri mensili affidati alle prediche dei Padri Gesuiti; omelie molto seguite dai giovani e dalle donne andriesi. Ma dal giugno del 1945 si registrarono una recrudescenza di scontri a fuoco che aggravarono i rapporti tra la classe dei braccianti – la maggior parte iscritta alla lega o al partito comunista – e le istituzioni pubbliche e religiose e i proprietari terrieri. Nonostante i buoni propositi delle associazioni religiose, Andria divenne la roccaforte rossa d’Italia. Nel 1946, proprio nelle prime giornate di marzo, quando gli scontri divennero sempre più accesi, le tre sorelle, ormai anziane e fiduciose della loro preghiera, rifiutarono di lasciare la loro dimora in piazza Municipio e seguire i loro parenti in luoghi più sicuri. Si sentivano, nonostante tutto, tranquille in quanto non solo avevano elargito la somma di cinquecento mila lire ai Salesiani per acquistare un terreno e costruire un oratorio, ancor oggi in vita, chiamato “Don Bosco” che, con la sua costruzione avrebbero trovato lavoro tanti disoccupati andriesi ma, più che altro erano certe che a donne vecchie e sole come loro nessuno avrebbe mai potuto far del male.
Ma il destino era segnato. Già dal 6 marzo alcuni individui si presentarono al loro palazzo in piazza Municipio per rovistare i loro appartamenti e quello del loro inquilino Francesco Ciriello, direttore della Banca d’Andria, in cerca di armi e persone. Era il segnale che qualcuno aveva sparso dicerie nei loro riguardi. Il pomeriggio, del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, invece, si venne a sapere che l’onorevole Giuseppe Di Vittorio, segretario della confederazione generale del lavoro, doveva tenere un comizio proprio nei pressi della loro abitazione per invitare i contadini andriesi a tenere la calma.
Luisa, Stefania, Carolina e Vincenzina pur intimorite per l’ennesimo comizio che, visto l’evolversi della situazione incandescente di una buona parte dei braccianti andriesi e, più che altro, per l’oscura e misteriosa visita dei cinquanta contestatori del pomeriggio precedente che cercavano armi che mai loro avrebbero potuto possedere, presero le due valigie che avevano preparato con i loro beni più cari e scesero al piano terra per dedicarsi, con i Ciriello, i portinai e la domestica, nella guardiola del loro palazzo, alla recita di un rosaio.
Erano passate da qualche minuto le ore 20 quando, ad un tratto, un colpo d’arma da fuoco tuonò nelle tempie della scioccata folla e della compagnia che pregava in portineria. Da quel momento al grido “hanno sparato dal palazzo delle sorelle Porro”, iniziò il macabro eccidio. Francesco Ciriello, Stefania e Vincenzina Porro, nonostante le violenze scamparono la morte, invece, per Luisa e Carolina non ci fu nulla da fare. Furono afferrate in via San Mauro e spinte attraverso l’androne del loro palazzo prima in piazza Municipio e poi trascinate per i capelli in via Bovio: “ammazzatele, ammazzatele che hanno le bombe nel petto” gridavano i rivoltosi con veemenza. Uno di loro con una gruccia le colpiva senza ritegno e pietà. Carolina fu uccisa da un esagitato con un colpo di baionetta allo stomaco e pestata a sangue ripetutamente sul viso dai tacchi delle scarpe di una donna e Luisa, invece, dopo aver “benedetto” il suo carnefice mentre con la sua mano esile si liberava gli occhi dai capelli imbrattati di sangue, fu mandata a sbattere, con un violento spintone, tra ingiurie indicibili, contro lo spigolo della porta attigua all’armeria Giannotti.
I corpi delle due sorelle Porro giacquero nel fango per tutta la notte, osservati a vista dai cinici agitatori, impedendo qualsiasi soccorso. Al mattino dell’8 marzo – giornata che oggi è dedicata alla festa delle donne – girava voce che i due dilaniati cadaveri sarebbero stati trascinati per le vie della città. Intervenne, finalmente, la forza pubblica su sollecitazione del vescovo Di Donna e i cadaveri, finalmente, vennero prelevati e trasportati al cimitero, tra un fragoroso e inaspettato applauso liberatorio.
Alle ore 11, una piazza Municipio gremita da uomini e donne di tutte le età, ascoltava il provato onorevole Giuseppe Di Vittorio il quale con toni fermi e chiari prometteva che il lavoro molto presto sarebbe arrivato e che, in ogni caso, l’ordine pubblico doveva assolutamente ritornare sovrano.
La scrittrice Ada Negretti – una donna che ben conosceva i tormenti dell’animo delle donne del Sud –, nel 1948, durante le fasi più tumultuose del processo, così ricordava le due sorelle Porro:«in chiesa venivano additate con reverenza e rispetto quando snocciolavano compostamente i rosari sul nero dei loro vestiti. È tutto lindo e accurato in queste donne. La rigida educazione ricevuta da genitori esemplari ha messo nelle figlie il senso preciso della signorilità senza, ostentazioni, della grazia senza chiasso, del contegno misurato ma senza rigidezza: mai un eccesso. E tanto rispetto dei simili, tanta comprensione per le loro pene, pei dolori, per le miserie, per gli affamati, pei derelitti»
LA LETTERA: Natale Capozza ricorda i tragici fatti del 7 marzo '46
«58 anni fa l'omicidio delle sorelle Porro una pagina di storia da non dimenticare»
«Il giorno 7 marzo ricorre il 58mo anniversario dei fatti tragici e delittuosi accaduti in Andria il 7 marzo 1946. Molti studiosi di storia contemporanea hanno scritto diffusamente delle precarie condizioni esistenti nel dopoguerra in Andria, in particolare sul duro scontro tra i proprietari terrieri e braccianti agricoli. Nell'ambito di questo contesto, un lettore della <<Gazzetta>> qualche tempo fa chiese di ricordare l'assassinio delle sorelle Porro.
Per capire come e perché furono uccise le sorelle Porro, ritengo sia utile ricordare la testimonianza di Vincenzo Fattibene, andriese, autore della pubblicazione "In politica e amministrazione - 50 anni al servizio della mia Città": <<Il pomeriggio del 7 marzo '46, Giuseppe Di Vittorio doveva tenere un comizio in piazza Municipio con l'intento dichiarato di pacificare gli animi. La piazza era gremita di compagni che aspettavano di ascoltare la parola del noto sindacalista. Uno sconosciuto, senza prevedere le conseguenze, sparò dal terrazzo accanto a quello del palazzo Porro, un colpo di pistola in aria. Fu il segnale della rivolta. Le poche forze dell'ordine furono fatte prigioniere, si temeva per la loro vita (furono liberate grazie all'intervento personale del vescovo Giuseppe Di Donna - E' in corso la procedura per la sua beatificazione). In via Ferrucci furono innalzate barricate ed istituiti posti di blocco per impedire l'ingresso in città delle forze dell'ordine provenienti da Barletta. Il palazzo Porro, sito proprio di fronte al Municipio, fu incendiato, saccheggiato e gli occupanti furono trascinati in strada. Le sorelle Porro furono trucidate e i loro corpi abbandonati sul marciapiedi, vicino all'armeria Giannotti di via Bovio. Le sorelle erano due donne dedite alla beneficenza e alla preghiera, incapaci di far male ad una mosca>>.
Di tali avvenimenti accaduti in Andria, riserbo la memoria perché, già ex combattente in Albania ero appena tornato dalla prigionia, e i miei pensieri erano tutti rivolti alla ripresa degli studi liceali (ultimo anno) interrotti fatalmente il 10 ottobre 1941 perché <<chiamato a fare la guerra> unitamente a centinaia di migliaia di altri giovani, molti dei quali <<caduti per la Patria>> (si disse), in Africa, nei Balcani, nelle isole dell'Egeo, nelle steppe della Russia, nei mari, nei campi di concentramento e di prigionia, mobilitati da un regime dittatoriale, […] che provocò tanti lutti e rovine per la sua megalomania pseudo-imperiale. Ma questa è un'altra storia»
lettera di Natale Capozza, al giornale locale di Andria "La Gazzetta", 7 Marzo 2004
«58 anni fa l'omicidio delle sorelle Porro una pagina di storia da non dimenticare»
«Il giorno 7 marzo ricorre il 58mo anniversario dei fatti tragici e delittuosi accaduti in Andria il 7 marzo 1946. Molti studiosi di storia contemporanea hanno scritto diffusamente delle precarie condizioni esistenti nel dopoguerra in Andria, in particolare sul duro scontro tra i proprietari terrieri e braccianti agricoli. Nell'ambito di questo contesto, un lettore della <<Gazzetta>> qualche tempo fa chiese di ricordare l'assassinio delle sorelle Porro.
Per capire come e perché furono uccise le sorelle Porro, ritengo sia utile ricordare la testimonianza di Vincenzo Fattibene, andriese, autore della pubblicazione "In politica e amministrazione - 50 anni al servizio della mia Città": <<Il pomeriggio del 7 marzo '46, Giuseppe Di Vittorio doveva tenere un comizio in piazza Municipio con l'intento dichiarato di pacificare gli animi. La piazza era gremita di compagni che aspettavano di ascoltare la parola del noto sindacalista. Uno sconosciuto, senza prevedere le conseguenze, sparò dal terrazzo accanto a quello del palazzo Porro, un colpo di pistola in aria. Fu il segnale della rivolta. Le poche forze dell'ordine furono fatte prigioniere, si temeva per la loro vita (furono liberate grazie all'intervento personale del vescovo Giuseppe Di Donna - E' in corso la procedura per la sua beatificazione). In via Ferrucci furono innalzate barricate ed istituiti posti di blocco per impedire l'ingresso in città delle forze dell'ordine provenienti da Barletta. Il palazzo Porro, sito proprio di fronte al Municipio, fu incendiato, saccheggiato e gli occupanti furono trascinati in strada. Le sorelle Porro furono trucidate e i loro corpi abbandonati sul marciapiedi, vicino all'armeria Giannotti di via Bovio. Le sorelle erano due donne dedite alla beneficenza e alla preghiera, incapaci di far male ad una mosca>>.
Di tali avvenimenti accaduti in Andria, riserbo la memoria perché, già ex combattente in Albania ero appena tornato dalla prigionia, e i miei pensieri erano tutti rivolti alla ripresa degli studi liceali (ultimo anno) interrotti fatalmente il 10 ottobre 1941 perché <<chiamato a fare la guerra> unitamente a centinaia di migliaia di altri giovani, molti dei quali <<caduti per la Patria>> (si disse), in Africa, nei Balcani, nelle isole dell'Egeo, nelle steppe della Russia, nei mari, nei campi di concentramento e di prigionia, mobilitati da un regime dittatoriale, […] che provocò tanti lutti e rovine per la sua megalomania pseudo-imperiale. Ma questa è un'altra storia»
lettera di Natale Capozza, al giornale locale di Andria "La Gazzetta", 7 Marzo 2004
Nel 2006, in occasione del Sessantennale anniversario del tragico episodio su Rai Tre, nello speciale Rai Educational è andato in onda un programma condotto da Filomena Rorro e riguardante l'eccidio delle Sorelle Porro. Il programma, rubricato "Piccole Guerre. Andria, 1946", ha tracciato i fatti di cronaca nera che videro la tumultuosa Andria di metà secolo, appena uscita dalla guerra e dal Fascismo, accendersi di cieca e violenta rabbia, o come le Signorine Porro la chiamavano in preghiera: "la cattiveria del Mondo".
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